NUOVO METODO DI RICERCA FORNISCE LA CHIAVE PER ACCEDERE ALLE PROTEINE NEI RESTI UMANI ANTICHI
Un nuovo metodo sviluppato dai ricercatori del Dipartimento di Medicina Nuffield dell’Università di Oxford potrebbe svelare il vasto archivio di informazioni biologiche contenute nelle proteine di antichi tessuti molli. I risultati, che potrebbero aprire una nuova era per le scoperte paleobiologiche, sono stati pubblicati sulla rivista PLOS ONE.
Dal cervello ai muscoli, dallo stomaco alla pelle: i tessuti molli conservati possono offrire informazioni uniche sul passato e sulla vita degli individui. Fino ad oggi, questo tesoro di informazioni è rimasto in gran parte inaccessibile alla scienza. Nel nuovo studio, il team guidato dalla ricercatrice Alexandra Morton-Hayward (Università di Oxford) ha sviluppato il primo metodo affidabile per l’estrazione e l’identificazione di proteine da tessuti molli antichi, dimostrandone poi l’efficacia su campioni archeologici di cervello umano.
Secondo la Morton-Hayward, gli studi sulle proteine antiche si sono limitati in gran parte a tessuti mineralizzati come ossa e denti: gli organi interni, che rappresentano una fonte molto più ricca di informazioni biologiche, sono rimasti una ‘scatola nera’ perché non esisteva un protocollo consolidato per la loro analisi. Il nuovo metodo cambia le cose.
Un ostacolo fondamentale è stato trovare un modo efficace per rompere le membrane cellulari e liberare le proteine. Dopo aver testato dieci diverse strategie su campioni di cervelli umani risalenti a 200 anni fa, rinvenuti in un cimitero vittoriano di un ospizio per i poveri, il team ha scoperto che l’urea (un componente principale dell’urina) era in grado di rompere con successo le cellule, liberando le proteine in esse contenute.
Dopo l’estrazione, le proteine vengono separate mediante cromatografia liquida e identificate mediante spettrometria di massa (una tecnica analitica che separa le proteine in base alla loro massa e carica elettrica). Il team ha scoperto che abbinando la fase di cromatografia liquida-spettrometria di massa a un metodo chiamato spettrometria di mobilità ionica a forma d’onda asimmetrica ad alto campo (che separa gli ioni in base al loro movimento in un campo elettrico), è possibile aumentare il numero di proteine identificate fino al 40%. Questo rende la tecnica un approccio potente per recuperare proteine da campioni difficili da analizzare, comprese miscele degradate o molto complesse.
Morton-Hayward ritiene che tutto si riesce a ridurre alla separazione: aggiungendo ulteriori passaggi, è più probabile identificare con sicurezza le molecole di interesse. È un po’ come svuotare un secchio di Lego: se si riesce a distinguere i pezzi in base al colore, poi alla forma, poi alla dimensione, ecc., maggiori sono le probabilità di creare qualcosa di significativo con tutti gli elementi.
Utilizzando il metodo combinato, il team ha identificato oltre 1.200 proteine antiche da soli 2,5 mg di campione: di gran lunga il paleoproteoma più ampio e diversificato mai riportato da qualsiasi materiale archeologico. I ricercatori sottolineano che le proteine sono un veicolo ideale per esplorare il passato recente e remoto, poiché sopravvivono molto più a lungo del DNA nella documentazione archeologica e possono raccontare l’esperienza vissuta da un individuo, al di là del suo patrimonio genetico.
Lavorando presso il Centre for Medicines Discovery dell’Università di Oxford, il team ha identificato una vasta gamma di proteine che regolano il corretto funzionamento del cervello, riflettendo la complessità molecolare del sistema nervoso umano, ma ha anche identificato potenziali biomarcatori di malattie neurologiche, come l’Alzheimer e la sclerosi multipla.
Morton-Hayward osserva che la stragrande maggioranza delle malattie umane, comprese le malattie psichiatriche e i disturbi mentali, non lascia segni sulle ossa, quindi sono sostanzialmente invisibili nella documentazione archeologica, tecnica che apre una finestra sulla storia umana che mai esplorata prima.
Poiché meno del 10% delle proteine umane è espresso nelle ossa, rispetto a circa il 75% negli organi interni, questa tecnica promette di ampliare notevolmente la comprensione della dieta, delle malattie, dell’ambiente e delle relazioni evolutive nell’antichità.
L’autore senior, Roman Fischer del Centre for Medicines Discovery dell’Università di Oxford, ritiene che, consentendo il recupero di biomarcatori proteici da tessuti molli antichi, questo flusso di lavoro consente di indagare patologie che vanno oltre lo scheletro, trasformando la capacità di comprendere la salute delle popolazioni del passato.
Il metodo ha già suscitato interesse per la sua applicabilità a un’ampia gamma di materiali e ambienti archeologici, dai resti mummificati ai corpi recuperati in palude, dagli anticorpi agli ormoni peptidici.
Tradotto e rielaborato da Daniele Mancini
Per ulteriori info: Università di Oxford