mercoledì, 16 Luglio 2025
Archeologia&Dintorni

IL TATUAGGIO TRA GRECI E ROMANI, UNA MODA O UNA CONDANNA?

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Nel mondo greco-romano, lo stigma , che in greco antico significa tatuaggio, fungeva da segno di colpa, fallimento e sottomissione. Secondo Erodoto, i Greci appresero l’ “arte” del tatuaggio penale dai Persiani nel VI secolo a.C. L’inchiostro divenne, dunque, uno strumento per marchiare prigionieri di guerra, schiavi e criminali.

Uno dei casi più famosi di tatuaggi di guerra risale al V secolo a.C., quando i potenti Ateniesi sconfissero i Sami. I vincitori tatuarono la fronte dei loro prigionieri di guerra con l’immagine amata di una civetta, emblema di Atene. Il favore fu rapidamente ricambiato quando i Sami sconfissero gli Ateniesi e, a loro volta, tatuarono sui loro prigionieri una nave da guerra samia.

Il filosofo greco Plutarco riferisce anche che durante l’assedio di Siracusa, durante la Guerra del Peloponneso, che si concluse con la sconfitta degli Ateniesi nel 413 a.C., sulla fronte dei 7.000 prigionieri non solo venne tatuato un cavallo, emblema di Siracusa, ma finirono anche per essere venduti come schiavi.

Quei tatuaggi forzati non erano solo un’arma di dominio, ma venivano anche usati come “manifestazione di vittoria”. Finché si viveva, si era una conquista vivente. Per i Greci, farsi tatuare durante la guerra era un segno di sconfitta e fallimento da cui non si poteva sfuggire. Dopotutto, nella mentalità greca, solo un debole si sarebbe rassegnato a essere marchiato con un tatuaggio. Un “vero” uomo orgoglioso avrebbe preferito la morte con suicidio. E così, per le famiglie dei vinti, era importante assicurarsi che i loro figli rimanessero “intatti”.

Un esempio del genere proviene da Megara in cui un’iscrizione commemora un oplita greco che combatté e cadde in battaglia durante la guerra greco-persiana del 480-479 a.C. L’iscrizione recita: “Io, Pollide, caro figlio di Asopico, parlo: non essendo un codardo, da parte mia, perii per mano dei tatuatori”.

Il memorandum è posto sopra un rilievo raffigurante Pollide nudo, armato di scudo e con la lancia in mano. Che l’iscrizione rispecchi la realtà non è importante ma quello che contava per la famiglia, che commissionò la lapide in memoria del loro amato figlio, era come veniva ricordato: coraggioso e invincibile e non si era lasciato macchiare dall’inchiostro.

Un altro uso dell’inchiostro era quello di marchiare le proprietà umane. I tatuaggi fungevano da targhette, soprattutto per gli schiavi disobbedienti o fuggitivi. Di conseguenza, la lettera delta (Δ/δ), la prima lettera della parola doulos (schiavo), divenne un simbolo di sottomissione. Alcuni si spinsero oltre, marchiando le proprie proprietà con il proprio nome in modo da poter essere facilmente identificati e restituiti sani e salvi alla “casa” di appartenenza.

Tatuare istruzioni specifiche richiedeva inchiostro aggiuntivo e probabilmente una mano professionale. Comandi tatuati come “Fermami, sono un fuggitivo!” erano comuni nell’antica Grecia e in seguito a Roma. Queste istruzioni, simili a quelle dei cani, non solo erano disumanizzanti, ma comportavano anche un ostracismo a vita.

A Roma, un ex schiavo con tatuaggi non poteva mai diventare cittadino, il massimo obiettivo romano; avrebbe invece raggiunto il titolo di peregrinus, un liberto senza diritti politici. A peggiorare le cose, in seguito al decreto di Augusto, agli ex schiavi che si erano fatti tatuare fu vietato avvicinarsi entro un raggio di cento miglia da Roma.

Eppure, a volte i tatuaggi hanno avuto un ruolo decisivo nella storia. L’invio di messaggi segreti attraverso le linee nemiche è antico quanto la storia della guerra.

Uno degli esempi più ingegnosi di cui si abbia notizia fu quello di Istieo, tiranno di Mileto. Quando Istieo fu tenuto prigioniero dal re persiano Dario I a Susa, usò il suo schiavo più fidato come piccione da guerra. Rasò il cuoio capelluto dell’uomo e vi fece tatuare la seguente frase: “Aristagora si rivolga contro il re”.

Quando i capelli finalmente ricrebbero, lo schiavo fu mandato dal genero del suo padrone, Aristagora. Al suo arrivo, ancora una volta, gli fu rasata la testa, il che diede inizio alla rivolta ionica contro il dominio persiano, che durò dal 499 a.C. al 493 a.C.

L’inchiostro aveva anche un’attrattiva particolare per i condannati per reati. Le insegne penali fungevano da bacheche di colpevolezza, rivelando i reati. Ad esempio, un ladro veniva marchiato con le lettere “FVR” (Fur, latino per “ladro”). Il monogramma non gli avrebbe mai permesso di sfuggire alle sue malefatte passate; sarebbe rimasto per sempre un ladro.

Secondo Cicerone, il più grande oratore di Roma, coloro che venivano ritenuti colpevoli di aver mosso false accuse venivano onorati con la “K” (kalumniator) sulla loro preziosa fronte, un Inglourious Basterds di tarantiniana memoria ante litteram

Alcuni cercarono di nascondere i tatuaggi con l’aiuto di splenia (bendaggi). Tuttavia, questi sforzi si rivelarono spesso più umilianti che utili. Nei suoi epigrammi, il poeta romano Marziale descrive un uomo elegante e raffinato con la fronte “avvolta” da toppe: “sempre seduto in prima fila, la cui mano sardonica brilla anche a questa distanza; il cui mantello ha così spesso bevuto a fondo la tinta tiria, e la cui toga è fatta per superare la neve immacolata; lui, i cui capelli ben unti profumano di tutte le essenze della bottega di Marcello, e le cui braccia appaiono lisce e levigate, senza un capello non strappato? Un fermaglio di fattura più recente di ieri gli sta sulla gamba ornata a mezzaluna, una scarpa scarlatta gli orna il piede indenne dalla pressione, e numerose toppe gli ricoprono la fronte come stelle. Ignori forse di cosa si tratta? Rimuovi le toppe e leggerai il suo nome”.

Alcuni cercavano metodi più drastici per affrontare le reliquie del loro passato. Ezio di Amida, medico di corte greco dell’imperatore Giustiniano, consigliava il metodo della salabrasione per la rimozione dei tatuaggi. La pratica prevedeva l’applicazione di nitro e resina di terebinto, che avrebbe corroso la pelle nell’arco di venti dolorosi giorni – un antico prototipo per la rimozione laser dei tatuaggi.

A volte, i tatuaggi venivano dati anche a chi aveva un “atteggiamento” sbagliato. L’imperatore Caligola, un po’ impulsivo, arrivò persino a tatuare (stigmatum notis) alcuni giovani nobili romani prima di condannarli alla schiavitù. Anche la pratica di tatuare i beniamini di Roma, i gladiatori, ebbe un seguito importante.

L’imperatore Valeriano, il primo imperatore romano a essere fatto prigioniero in guerra, catturato durante la battaglia di Edessa dal re persiano Sapore I, provocando un’onda d’urto in tutto il mondo romano, ricevette un piccolo ricordo dalla corte persiana. sembra che l’imperatore stesso era un appassionato di inchiostro ed estese la pratica a coloro che avevano “credenze corrotte”, i primi cristiani, che ordinò di tatuare con crocifissi.

Secondo Ponzio di Cartagine, la sentenza si diffuse rapidament, e così “molti confessori furono sigillati con una seconda iscrizione sulla loro fronte distinta”.

Allo stesso modo, Ilario, vescovo di Poitiers, scrisse che i suoi illustri colleghi si facevano tatuare sulla “fronte cattolica” l’iscrizione: “condannati alle miniere”. Quando Costantino il Grande assunse il controllo della contusa attività imperiale, la pratica del tatuaggio sul volto fu scoraggiata: dopotutto, il volto era “formato a somiglianza della bellezza celeste” ma i Romani, ostinati, si rivolsero invece a tatuaggi su altre parti del corpo, solitamente mani e polpacci.

Nel 787 d.C., il Secondo Concilio di Nicea proibì categoricamente i tatuaggi. Alcuni scrivono che la pratica fu completamente vietata, mentre altri sostengono che i tatuaggi fossero accettabili se proclamavano la fede cristiana.

Per i raffinati Greci e Romani, era improbabile che esistesse un tatuaggio che potesse suscitare invidia. Erodoto scrive che, tra le numerose culture e tribù con cui entrarono in contatto, i tatuaggi rappresentavano sempre una parte importante della loro identità. Lo storico greco osserva che per i Traci “il possesso di tatuaggi è considerato un segno di appartenenza, mentre la loro assenza è un segno di nascita modesta”, confermando, probabilmente, che per Greci e Romani che i tatuaggi fossero riservati ai selvaggi: per loro, una persona civile non avrebbe usato il proprio corpo come una tela vivente…

 

Daniele Mancini

Per ulteriori info e biblio:

  • Andrea Palmeri, Tatuaggio. Dalle origini ai giorni nostri, Massa 2011
  • Nadir e Goffredo Feretto, Messaggi sulla pelle. Tatuaggio e antichi simboli, Chiavari 2008

Fabio Viale, Musei Reali di Torino

I tatuaggi di Ötzi

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